Top & Flop della 500 Miglia di Indianapolis 2018
29 Maggio 2018 - 21:11
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Indy 500
I promossi e i bocciati della centoduesima edizione della gara più importante della IndyCar

TOP. Will Power – Ci sono voluti undici anni, ma alla fine ce l’ha fatta. Il pilota australiano si è finalmente aggiudicato la 500 Miglia di Indianapolis, dopo una gara molto accorta. Nella prima parte Power ha lasciato sfogare Carpenter, Pagenaud e Kanaan. Dopo la terza sosta è passato davanti a Carpenter grazie alla scelta di anticipare il pit stop per sfruttare il vantaggio della gomma nuova, e da lì in poi non ha più lasciato scampo agli avversari. Solo gli incidenti, in particolare quello di Kanaan a meno di 15 giri dalla fine, hanno rischiato di compromettere la sua marcia verso la vittoria. I piloti rimasti davanti a lui hanno però dovuto fare uno splash and go, e Power si è preso con merito la prima vittoria a Indianapolis della sua carriera. Per sua stessa ammissione, al campione IndyCar 2014 mancava ancora un tassello per essere considerato un vincente. Ora è un vincente.

Ed Carpenter – Voleva dimostrare di essere un pilota in grado di sbaragliare la concorrenza nella gara più importante dell’anno, e non solo un uomo velocissimo solo sul giro secco. Ed Carpenter non ha vinto la 500 Miglia di Indianapolis, ma ha chiuso la bocca ai suoi detrattori con una pole stupenda e una gara quasi perfetta. 65 giri in testa non gli hanno permesso di arrivare davanti a tutti, ma solo uno straordinario Will Power è riuscito a piegare il pilota statunitense. L’unico rammarico è il non essere riuscito a prendere la scia del pilota del Penske all’ultima ripartenza, ma il secondo posto è un risultato che rafforza lo status di Carpenter e gli dà credibilità e morale per la 500 Miglia di Indianapolis del 2019.

 

 

Alexander Rossi – Era chiamato a una missione impossibile: vincere la 500 Miglia di Indianapolis partendo dalla penultima posizione. Non ha bissato il clamoroso successo da rookie del 2016, ma ha compiuto una rimonta incredibile fino alla quarta posizione. Rossi ha condotto una gara tutta d’attacco senza però commettere errori, a differenza di tanti suoi colleghi più esperti, e dal centesimo giro in poi ha risalito in fretta il gruppo con una serie di sorpassi mozzafiato. Il pilota dell’Andretti Autosport ha sfruttato ogni singola occasione utile per superare quelli davanti, distinguendosi per l’aggressività e le manovre d’attacco in fase di ripartenza.

Carlos Munoz – Quest’anno non è in IndyCar come pilota full timer, dopo quattro stagioni di buona presenza. Il colombiano aveva solo una carta da giocarsi: la 500 Miglia di Indianapolis. Non ha dato molto spettacolo, ma ha portato a casa un settimo posto e ha fatto una figura migliore rispetto a tanti altri piloti, compresi i compagni di squadra Andretti e Veach.

Scott Dixon – Il team Ganassi sta vivendo una fase complicatissima dal punto di vista tecnico, con gli ingegneri che faticano a trovare un assetto adeguato per le DW12-Honda. In questa situazione complicata, Dixon si è letteralmente caricato sulle spalle la squadra, portando a casa il massimo possibile e tenendo anche aperto ogni discorso in chiave campionato. Nel GP di Indianapolis è partito diciottesimo e ha rimontato fino alla seconda posizione dopo aver rivoltato come un calzino la monoposto nel warm-up. Alla Indy 500 è riuscito a centrare la Fast Nine, e dopo aver corso in difesa si è inventato una strategia diversa, che grazie all’ultima caution e a una gestione magnifica dell’etanolo gli ha permesso di arrivare terzo. 

 

 

Dreyer & Reinbold – In controtendenza rispetto al passato, il team co-gestito da Dennis Reinbold ha ampliato la sua presenza a Indianapolis, schierando due monoposto e scegliendo un pilota come Karam supportato da pochi sponsor. Sebbene la struttura non sia delle migliori, alla 500 Miglia di Indianapolis si è fatta valere e forse ha posto le basi per un ritorno come team full timer in IndyCar. Karam è finito a muro, ma stava lottando con successo per un piazzamento nella top ten. Hildebrand ha finito la gara in undicesima posizione, dopo un duello con Rahal. 

Chevrolet – L’anno scorso ha sofferto molto alla 500 Miglia di Indianapolis, con la Honda che era parsa più competitiva sebbene soffrisse di qualche problema d’affidabilità di troppo. Quest’anno il costruttore americano ha preparato in modo eccellente la gara più importante dell’anno, trovando una potenza super in qualifica: ben sette monoposto delle nove partecipanti alla Fast Nine erano spinte da motori Chevrolet. In gara è arrivata la doppietta con Power e Carpenter, e il motorista statunitense ha avuto un suo pilota in testa in 150 giri di gara su 200 totali.

FLOP. L’eliminazione di Hinchcliffe a Bump Day/ Schmidt-Peterson La delusione più grande della 500 Miglia di Indianapolis è senza dubbio un evento accaduto ancora prima del secondo giorno di qualifiche. Il flop dell’evento è senza dubbio l’eliminazione di James Hinchcliffe nel Bump Day e il clamoroso fallimento sportivo del pilota canadese e dello Schmidt-Peterson, team con una certa esperienza in IndyCar. Hinchcliffe è stato estromesso dalla gara per una pessima gestione della qualifica da parte del team e dei suoi ingegneri, che lo hanno tenuto ai box troppo a lungo perché convinti di aver sicuramente superato la tagliola nel Bump Day. E quando il Sindaco si è ritrovato con l’acqua alla gola, non ha nemmeno potuto provare un ultimo disperato tentativo a causa di un problema tecnico non riscontrato nei tanti minuti in cui è rimasto fermo ai box.
Lo Schmidt-Peterson aveva comunque la possibilità di riscattarsi in gara, ma non ha messo gli altri suoi tre piloti (due ufficiali più Harvey della struttura satellite Shank Racing, ndr) nelle condizioni di essere competitivi. Solamente Wickens, con una strategia diversa e qualche bel sorpasso, è riuscito a salvarsi cogliendo un nono posto tutto sommato discreto. 

 

 

Conor Daly – E’ vero che ha partecipato alla 500 Miglia di Indianapolis con una vettura e uno staff rimediati all’ultimo secondo e del materiale non di primissima qualità (forse nemmeno di seconda, ndr), ma un pilota di talento come lui poteva fare qualcosa di meglio. Qualche comprimario almeno si è fatto notare differenziando la strategia e cercando qualcosa di diverso.

Marco Andretti – Poche sono le certezze nella vita; una di queste è che Andretti sparisce quando c’è da fare sul serio.

Max Chilton – Ma sta ancora girando?

Ed Jones – Tanto costante ed efficiente nel suo anno d’esordio, tanto perso nel 2018. Il campione Indy Lights 2016, Long Beach a parte, sta toppando clamorosamente al suo secondo anno in IndyCar e con un top team come il Chip Ganassi Racing. L’anno scorso ha clamorosamente lottato per vincere la 500 Miglia di Indianapolis, giocandosela ad armi pari con Sato e Castroneves. Quest’anno ha sbagliato nel suo run in qualifica, rimanendo relegato in una mesta ventinovesima posizione, e in gara è andato a sbattere così come aveva fatto anche a Phoenix. All’ISM Raceway però è finito a muro mentre era secondo; a Indianapolis il crash è stato l’apice di due settimane orrende.

Danica Patrick – Finisce la carriera col botto, ma non nel senso da lei auspicato. Un gran peccato, perché in qualifica aveva fatto un figurone, ottenendo un meritato settimo posto e trovando la velocità nel momento clou. In gara ha invece sofferto sin dall’inizio, nonostante l’Ed Carpenter Racing le avesse messo a disposizione un pacchetto molto competitivo, e non a caso Ed Carpenter aveva fatto la pole e nella prima parte della corsa era stato leader senza problemi. La prestazione di Danica, considerando la sua prolungata assenza dalla IndyCar, non è tutta da buttare, però è tanta la delusione sua e anche nostra per una bella carriera chiusa in malo modo.

 

 

L’incidente fra Sato e Davison – La prima caution della gara l’hanno creata loro con un incidente al giro 46 francamente evitabile. Davison, che nelle prove si era fatto notare solo per il poco stile col quale ha salutato la mancata qualificazione di Hinchcliffe alla gara, girava su una traiettoria strana nonostante fosse molto lento rispetto alle altre vetture in pista. L’australiano poteva spostarsi per non creare situazioni di pericolo. E’ però vero che l’unico pilota a colpire Davison è stato Sato, che come al solito è coinvolto da pieno protagonista in un episodio di gara controverso. Non un grande modo di difendere la vittoria dell’anno scorso per il giapponese. 

Le pronunce di Maglienti – Nel corso dei 200 giri della 500 Miglia di Indianapolis, Ed Carpenter ha cambiato pronuncia circa 35346536523556547779 volte. La versione più gettonata, Ed Carpènter, ha fatto semplicemente rabbrividire il sottoscritto. Anche “Zak Witch” e “Clem DeMelo” hanno spinto gli appassionati di IndyCar a un supplemento di autocontrollo per non invocare le più svariate divinità. Pronunce a parte, la telecronaca è stata buona. Qualche accenno storico di Maglienti ha sicuramente contributo a rendere interessanti alcuni “tempi morti” nell’arco della gara, e magari ha permesso a qualche appassionato di IndyCar più recente di conoscere meglio il fascino e le orgini di Indianapolis. Puglisi ha dato il solito ottimo contributo come voce tecnica, ben coadiuvato da Sgarbossa.