Su ogni singola foglia di quella distesa verde l’acqua della pioggia aveva coperto con un velo quasi impercettibile le foglie delicate. Un paesaggio poetico, a immaginarlo così, se non fosse che quel tocco dolce era solo un contorno in una sterminata distesa verde da brividi solo a nominarla. Nordschleife. Meglio conosciuta come Nurburgring. Un incubo di 22 chilometri, 174 curve, 300 metri di dislivello e 150 cambi di direzione. Un inferno, da percorrere senza respiro, con lo stomaco sottosopra e quel misto di eccitazione e paura che solo chi vive per una passione bella e maledetta può provare. Quarant’anni oggi da quell’1 agosto 1976. Il tempo, specie nella Formula 1, passa così in fretta che certe epoche e certi episodi difficilmente ci appaiono passati. Ci sono attimi che non possono non essere indelebili. Nello sguardo di chi ammira, nel corpo e nella mente di chi in quell’istante ha ricevuto un aiuto dal destino.
Niki Lauda non ha mai dimenticato quell’attimo che per sempre ha cambiato la sua vita. In quell’inferno verde si sentiva sicuro di poter fare qualsiasi cosa. Aveva il record della pista (era stato l’unico a scendere sotto il muro dei sette minuti). Per uno come lui affrontare quella prova stremante era diventata quasi un’abitudine. Era un tipo che difficilmente si faceva sopraffare dalla tensione. Tutto sotto controllo. A parte quel giorno. Non voleva correrlo, quel gran premio. Sapeva che il rischio era troppo alto, che governare l’acqua nell’inferno era impresa ardua anche per uno come lui. Lo avevano preso per opportunista, arrogante, egoista. Dicevano che pensava solo al campionato. Che aveva paura. E questo, uno come lui, non poteva accettarlo.
Era rientrato ai box per montare le gomme slick: la pioggia aveva lasciato spazio a un tiepido sole che pian piano stava asciugando la pista. Il rivale James Hunt con la sua McLaren era lontano e lui, questo, non poteva permetterlo. Il cambio gomme lo aveva spedito in fondo al gruppo, e allora via alla furiosa rimonta. Terzo giro, chilometro 11: Lauda sta attraversando il tratto compreso fra la Ex-Muhle e il tornante Bergwerk verso sinistra. A quel punto il buio: forse un cedimento meccanico, forse la sospensione mandata in frantumi da un avvallamento, forse un errore di Niki che avrebbe poi tentato una correzione quando ormai non aveva più tempo. La sua Ferrari 312 T2 urta una roccia poco a lato della pista (a proposito di sicurezza e rischi…) e inizia a girare su se stessa, subito avvolta dalle fiamme. L’inferno stava per avvolgerlo nella sua morsa. Lauda sentiva la vita allontanarsi pian piano, mentre il fuoco tutt’intorno a lui non gli lasciava scampo e i gas tossici entravano nei suoi polmoni. Nel frattempo, alla Bergwerk arriva Guy Edwards, che riesce a evitare la vettura incendiata. Qualche istante e Brett Lunger non riesce a evitare il colpo.
Attimi interminabili, occhi sbarrati e attoniti. Il mondo assiste in diretta e si scopre impotente di fronte a quella tragedia. Poi, ecco Arturo Merzario. Che inchioda, e che affronta quelle fiamme attanaglianti, mentre Edwards e Lunger, che come lui non ci hanno pensato due volte a mettere da parte corsa e sport per rischiare tutto per Niki. Che intanto lotta, nella nebbia, nel brivido, nel fuoco. Non molla, mentre Merzario si getta nelle fiamme e gli salva la vita. Le immagini di quella macchina in fiamme e di quei tre eroi sono una pietra scolpita nell’immortalità della Formula 1 e dello sport. Lauda, di certo, non le dimenticherà mai.
A 45 giorni da quell’inferno nella Nordschleife, tornerà in pista, a Monza, dopo che gli avevano già fatto l’estrema unzione, dopo che la Ferrari aveva già scelto il suo sostituto (Reutmann) e dopo che tutti lo avevano dato per spacciato. Dimostrò che poteva uscire vincitore da quell’inferno ancora una volta, che aveva vinto un’altra scommessa contro la morte, contro quell’incubo immerso fra gli alberi. I segni di quel pomeriggio tedesco se li porta ancora dietro: sul viso, nella testa, nel cuore. Ma Merzario, Edwards e Lunger gli hanno dato un’altra possibilità. C’è un filo che lo lega a quella pista. Forse, più dei suoi tre titoli mondiali, più delle sensazioni che la Formula 1 gli regalava. Quella pista, 40 anni fa, ha segnato il suo destino. Il bivio di un campione risorto e dei suoi tre angeli che hanno ricordato a tutti cosa vuol dire coraggio.