“…E capivo che in famiglia non trovava acqua per il suo fuoco, ma benzina”. Enzo Ferrari usò parole forti e bellissime per descrivere Ricardo Rodriguez de la Vega, promessa dell’automobilismo messicano, scomparso a soli vent’anni nel 1962. Lui e il fratello Pedro, che morì nove anni dopo al Norisring, furono piloti Ferrari.
E oggi, arrivata con un volo direttamente da Austin, la Ferrari ritrova la città dell’autodromo dedicato ai due fratelli, teatro della vittoria nel mondiale 1964 di John Surtees e della doppietta di Prost e Mansell con la Rossa nel 1990. Al terzo anno della sua terza vita, il circuito messicano mantiene in parte l’impianto originale, anche se al posto della Peraltada che costò la vita a Ricardo c’è oggi la sezione dello stadio, coreografica ma lentissima. Inaugurato per la Formula 1 nel ’63, tornato in calendario fra il 1986 e il ’92 e poi ancora nel 2015, il tracciato è diventato sempre più corto: dai 5 chilometri originali ai 4304 metri attuali.
La particolarità più significativa è proprio l’aria: la metropoli messicana si trova a 2300 metri di altitudine, la densità atmosferica è circa un quarto in meno (inquinamento a parte) rispetto al livello del mare. I motori turbo odierni sopperiscono a questa carenza con il compressore, ma il carico aerodinamico richiesto è elevatissimo, proprio perché l’aria non ‘spinge’ giù la vettura come farebbe a un’altitudine inferiore.
Anche qui, e più che in tanti altri circuiti, la cornice del pubblico è spettacolare e il tifo ferrarista non si limita al circuito: per le strade cittadine, i pullman su cui si sposta la Scuderia sono subito individuati e salutati con calore.