Talento puro, come raramente se ne vedono, anche se il tempo lo aveva gettato in pista in una delle epoche più ricche e leggendarie della Formula 1, piena di campioni che hanno lasciato un segno scolpito nella pietra immortale dei ricordi di tutti gli appassionati. Ma la sua impresa è stata proprio questa: pur senza aver mai vinto un gran premio, il nome di Chris Amon può camminare fianco a fianco ai nomi che, in quegli anni, regalarono sensazioni ed emozioni che mai andranno perdute.
E pensare che la sua vita doveva essere dedicata all’allevamento di pecore. Questa era l’attività di famiglia che i genitori portavano avanti nelle campagne nei dintorni di Bulls, in Nuova Zelanda, dove Chris era nato il 20 luglio del 1943. Il sangue, però, gli parlava di velocità, di rombi. Tutto quello che di più lontano si poteva immaginare dall’atmosfera rilassata del verde neozelandese. Convinse il padre Ngaio a comprargli una Austin A40 special, con cui disputò le prime gare sul vicino circuito di Levin. Lì aveva già capito quale sarebbe stato il suo destino. E allora ecco l’Europa, dove ribolliva la passione per i motori, dove poteva sentirsi a casa anche a migliaia di chilometri distanza e misurarsi con i grandi della Formula 1. Graham Hill, Jim Clark, John Surtees, i suoi connazionali Bruce McLaren e Denny Hulme, Jack Brabham. Nomi che potevano mettere i brividi a un ragazzo di 19 anni appena arrivato dall’altra parte del mondo.
Non a Chris Amon. L’esordio nel 1963 con la Lola. Poi Lotus, Brabham e Cooper. Un talento cristallino: veloce, pulito, chiaro come l’alba. E peccato se i risultati, almeno a ruote coperte, faticavano ad arrivare. Nello stesso anno, però, Bruce McLaren capisce che in quel ragazzo c’è qualcosa di speciale e lo vuole con sé alla 24 Ore di Le Mans. Risultato? Vittoria. Un traguardo che non passa inosservato a uno che di talenti che capiva qualcosa: Enzo Ferrari, che dà mandato ai suoi uomini di portare a Maranello quel pilota in cui intravede il futuro della Rossa.
Il triennio dal 1967 al 1969 è il periodo di maggior splendore in Formula 1, gli anni in cui si guadagna l’ammirazione di tutti. La vittoria, però, non arriva. E’ uno dei più veloci, dei più costanti, dei migliori a far progredire la macchina che guida (tanto che, uno come Mauro Forghieri, lo definì il miglior collaudatore con cui abbia mai lavorato in carriera) ma, per un motivo o per l’altro, quando è a un passo dall’alzare il pugno al cielo la vettura e/o la pista lo tradiscono. Come quando, in Spagna ad Jarama nel 1968, ha più di 23” di vantaggio sul resto della compagnia e, per colpa di un fusibile, è costretto al ritiro. In Canada, invece, è un anello della frizione a cedere, mentre ha quasi un minuto sugli inseguitori. In Belgio, poi, succede qualcosa di davvero insolito: è primo, tutto pronto e apparecchiato per la prima vittoria, ma un giornale s’infila nel radiatore della sua Ferrari 312 e ne causa la fusione del motore. L’anno dopo, in Sudafrica, mentre è in vetta lo scoppio di un pneumatico gli toglie un’altra gioia a portata di mano.
Sono solo alcuni degli episodi che hanno macchiato una carriera altrimenti ancor più ricca, ma che comunque rimane indimenticabile. Impreziosita oltre che, come detto, dalla 24 Ore di Le Mans del ’66, dalla vittoria alla 24 Ore di Daytona, quella della parata Ferrari, e dal successo nella 1000 km di Monza. Nel ’67 la morte del compagno di squadra a Maranello, Lorenzo Bandini, lo scosse molto, ma è nove anni più tardi, dopo l’incidente di Niki Lauda al Nurburgring, che reagisce d’impeto: alla ripartenza, Amon si rifiuta di prendere parte alla gara. La Ensign, la sua scuderia di allora, lo licenziò. Fu alla fine di quell’anno che decise quindi di ritirarsi. Non prima, però, di aver consigliato alla Ferrari di ingaggiare un canadese che correva in Formula Atlantic e che rispondeva al nome di Gilles Villeneuve.
Corse con: Lola, Lotus, Brabham, Cooper, Ferrari, March, Matra, Tecno, Tyrrell, Amon (proprio come Brabham intraprese la carriera anche di costruttore), BRM, Ensign e Wolf. Ha disputato 96 gare con 5 pole position (è il pilota col maggior numero di partenze al palo senza aver mai vinto un gran premio), 11 podi, 3 giri veloci in gara e 83 punti totali. Il 12 giugno del 1993 venne insignito dal Regno Unito del titolo di “Membro dell’Ordine dell’Impero Britannico”. Mario Andretti di lui diceva: “Se facesse il becchino, la gente smetterebbe di morire”. Sfortunato, sì. Ma dal talento immortale. Perché a volte i numeri non possono dire tutto. Era tornato in Nuova Zelanda, a condurre l’azienda di famiglia e a dedicarsi all’allevamento di pecore. A casa, sorridente, nonostante tutto. Nonostante il cancro che lo aveva colpito negli ultimi anni, e che questa mattina, all’ospedale di Rotorua, lo ha sconfitto. Seguiva sempre la Formula 1, ricordando il suo arrivo in Europa, le sue imprese, quello che poteva essere e che non è stato fino in fondo.
Chris Amon ha abbassato la visiera. E chissà che, in Spagna, a Monza o a Spa, non possa alzare il pugno al cielo. Almeno per una volta. Il destino, per le leggende come lui, può fare un’eccezione.